lunedì 5 gennaio 2009

Letterina: alla Befana di Pace, di Lino Manocchia

Letterina: alla Befana di Pace

di Lino Manocchia


Vorrei che quest’anno la Befana potesse avere lo stesso spirito, la stessa poesia dei miei anni più cari, poterle scrivere la letterina piena di pretese, andarmi ad infilare fra le coltri con l’inutile intenzione di dormire. Vorrei essere capace di appendere alla cappa del camino una lunga calzetta, metterle il caffé, infine addormentarmi solo quando il sonno mi avvolge insensibilmente come morbide spire di velluto, e destarmi, d’un tratto, come per una reminiscenza e combattere meravigliosamente tra l’impulso di correre in cucina, nudo i piedi e in camicia e il timore di buscarmi un rimprovero dal babbo previdente che teme un forte raffreddore.
Tutto questo vorrei, ma non lo posso più. Perché tutto è passato. Passato il tempo in cui era poesia, passato il
tempo di narrarsi delle fiabe. Non c’è più “l’Infermiera di tata”, non c’è più “Il piccolo scrivano Fiorentino”; “Cenerentola” non c’è e non c’è più nemmeno la Befana. Anzi c’è ma è malata. Quel saggio ma tremendo positivismo, quel calcolo empirico quella fredda lambiccatura cerebrale che possiede l’umanità di oggi ha inquinato perfino la Befana. Ed essa oggi c’è ma è malata. Malata di stanchezza come ogni cosa di ieri. Stanca è la Befana. Stanca di viaggiare per le stelle, stanca di entrare pei camini stanca di tutto, delle calze di lana casereccia, delle lunghe e pietose letterine, stanca di correre pel mondo, oggi che il mondo non la crede, tradita dal vecchio barbuto Santa Claus.
Ha imparato a non bere il caffé. E poi ha imparato a contare. Tutte le case ha dovuto ricontare. E quante ne mancavano. Tante che le è rimasto il sacco pieno di balocchi, e forse li avrà portati al cimitero sulle tombe fresche.
Povera, tradita Befanuccia, quante ne ha sentite nel tempo. L’hanno chiamata “La Befana di guerra”, anche “la Befana Fascista”. Ha imparato ad avere tanti nomi. Nomi che tu non amavi e che ti stavano male. Oggi però non ti devi adirare “Befanuccia piccina piccina”, che vai sopra una scopa per l’azzurro, oggi non devi sorridere se noi ti chiamiamo “La Befana di Pace” su questo mondo martoriato, Befana che segui una stella di pace che ti porta verso una capanna dove è nata la pace tra gli uomini, Befana che spargi la pace col sorriso d’un dono, non ti devi adirare. Donacela! Donaci, befana, quella pace per la quale tu vivi e per la quale viviamo.
Al bambino che ti chiede il trenino, a suo padre che ti chiede solo il pane quotidiano, tu Befana, magari, non dar nulla, magari di meno. Ma da loro la pace.
E forse con la pace gli uomini ritroveranno se stessi: “l’Infermiera di tata”, per esempio, ed il “Piccolo scrivano Fiorentino”.
Come una volta. Una volta tanto bella.
LINO MANOCCHIA

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