mercoledì 24 dicembre 2008

1943: Natale in un campo di concentramento tedesco, di Lino Manocchia, giornalista giuliese

Ap – Ricordi di guerra

Sessantacinque anni fa la Seconda Guerra Mondiale infuriava. Il mondo intero coinvolto in una tragica vicenda distruttiva che mieteva vittime innocenti. Quello che pubblichiamo è l’icastico racconto di un Natale trascorso tra i reticolati da un protagonista, uno dei tanti. È la rievocazione di Lino Manocchia (nella foto a Mostar) che narra alcuni episodi vissuti nell’arco di 1085 giorni in vari campi di concentramento tedeschi. Appunti frettolosi di vicende annotate nel momento stesso in cui venivano vissuti, che riemergono nel tempo, narrati con lo spirito disincantato del cronista, come se quelle tristi vicende fossero appartenuti ad altri. (M.S.).

1943: Natale in un campo di concentramento tedesco

di Lino Manocchia

NEW YORK, Natale 2008 - Come concentrare in un articolo, gli episodi salienti di tre anni, raccolti in un libricino, ingiallito dal tempo, scritto con la matita, episodi vita vissuta agli inizi degli anni ’40, in un campo di concentramento tedesco? E’ la Odissea in Germania del cronista. Oriundo di Giulianova (Teramo), nel 1943 fu trasferito dal Collegio Aeronautico di Forlì, insieme al comandante la base, colonnello Moore, nell’aeroporto di Mostar (Jugoslavia).
La notte del 9 settembre 1943, con la cessazione della guerra dell’Italia, i soldati tedeschi, che erano stati nostri alleati, ci dichiararono subito nemici.
Richiusi nell’orrendo penitenziario di Mostar – che il pensiero assimila a Sing Sing o Alcatraz – quindi caricati, con 60 persone in ciascun vagone merci, saldamente serrato, si attraversa Zenica, Sarajevo, Broad, Bad Orb, Frankfurt, Hunstadt, Grawensback, Husingen, Visbaden. e finalmente l’arrivo dove vengono assegnati i piastrini di riconoscimento personale: IX-B-11739.


A scanso di equivoci, subito ci avvertono che siamo ”internati, non prigionieri”, pertanto avremmo goduto, secondo le convenzioni, di regole meno rigorose di quelle imposte ai prigionieri. Ma fu soltanto un annuncio… per uso e consumo proprio dei tedeschi.
Il primo giorno, allineati e guardati da soldati armati, circa 200 italiani – tra i quali Mario Nardi e Gino Benelli di Reggio Emilia - dopo un’ora di cammino arriviamo in un ospedale militare tedesco. L’ordine: pulire le toilette e le fognature, guardati dalla “SS” e dileggiati dai soldati feriti, alla finestra. Si dorme su letti di legno ed un po’ di paglia fetida, si mangia patate e acqua con bietole.
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Un giorno ho una gradita sorpresa: incontro il noto giornalista Giovanni Ansaldo col quale, rimuginiamo episodi di guerra, e ci proponiamo di narrare ai posteri le nostre avventure. Il nostro status di prigionieri era ancor più angustiato dai ripetuti tremendi bombardamenti che le forze aeree anglo-americane compivano distruggendo, con spaventevole monotonia, tutto ciò che c’era da distruggere.
Il 30 ottobre 1943, sempre a piedi, ci portano alla fabbrica VDM di Hermerstrass, che costruiva le eliche per la Luftwaff, e mi accoppiano con un russo (Vassilly), minuscolo ma duro come un toro, ed insieme controlliamo i mozzi. Mancava qualche giorni al primo Natale in un campo di concentramento. Il caro amico Ugo Gazzola di Piacenza, dopo aver controllato una dozzina di mozzi per elica, da solo (aveva pochi capelli ma era forte come un lottatore), disgraziatamente ne fece cadere uno. Subito gridarono al ”sabotage” e la SS picchiò duro il povero Ugo, che venne rinchiuso in un gabinetto allagato in attesa della “sentenza”. L’indomani provai a passargli dallo spiraglio basso della porta una fetta di pane. Venni “scoperto” e mi buscai tre o quattro ceffoni che me li risento ancora. Da quel giorno non vidi più il piacentino.
Sempre controllati dai burberi “SS” fummo trasportati in un tunnel ferroviario, dove i tedeschi dovevano costruire pezzi per gli aerei da guerra. Bisognava creare una linea elettrica interna issando grossi cavi nelle pareti. Si lavorava di notte alla luce di una torcia con conseguenti svariate martellate nelle mani. L’indomani lo stesso, e così il giorno dopo e il giorno dopo ancora. Freddo, umidità ed un gamellino di acqua, margarina e rape.
Intanto a sera, quando al capitano tedesco saltava in mente di fare il cow boy, dopo una predica lagnosa, irritante, insulsa e offensiva per gli italiani, incitandoli a lavarsi col sapone – che non ci davano – lanciava il “lazo” sul capo di qualche prigioniero, salutando l’azione con un ”hail Hitler.”

NATALE A GREWENSBACK - Era il Natale 1943. Oltre 230 mila italiani si trovavano rinchiusi nei vari “lager” recintati di filo spinato, con cani lupi che gironzolavano abbaiando. Erano gli “italienish”, avevano commesso anche loro, un “tradimento” verso i tedeschi, i quali quattro anni dopo, tornata la calma, tramite l’International Forced Labour Compensation Dipartiment (Ginevra) promettevano liquidazioni e sovven-zioni, turlupinando poveri esseri umani molti dei quali torna-vano a casa senza conoscere il loro destino e quello della famiglia, se ancora viva, e senza un soldo di retribuzione.

Un bel giorno la Germania, dopo quattro anni burocratici, con una laconica lettera dichiarò che “gli stranieri non avevano svolto lavori forzati”, in quell’inferno dove si sprecarono gli

anni migliori dell’esistenza di migliaia di italiani, ”pertanto non potevano godere delle retribuzioni.”
Un clima tetro, fatto di pioggia, libeccio, neve, anticipava la giornata che festeggia la nascita del Bambino Gesù. Nel campo sussisteva un povero prete che cercava di assolvere i suoi compiti con scarso risultato. Intanto era giunto il conte Domenico Trifoni, amico di famiglia, colonnello dell’Esercito
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italiano giunto per reclutare volontari a combattere contro gli americani che si trovavano in Italia. Trifoni che era di stanza a Berlino dove si stampava un foglio propagandistico da distribuire nei vari campi, mi offrì di entrare nella redazione del “giornale”, cosa che rifiutai e che, coincidenza, un mese dopo
l’incontro, una bomba distrusse tutto. Del conte Trifoni non ebbi più notizie.
La festività natalizia era più sentita che mai, e gli italici Ferrero, Benelli, Nardi, De Lucia avevano allestito qualcosa di religioso. Un tremendo temporale flagellava la zona. Con altri compagni, uscimmo dalla fabbrica cercando rifugio in una cavernetta. Il calabrese Denni si riparò (“per non bagnarsi!”…) sotto una querce. Un fulmine lo prese in pieno. Fu la fine. Dopo il tramonto, con la pioggia leggermente placata, in fila, ascoltavamo il solito idiosincratico capitano che con astiosa acredine sputava il suo misero sermone, divertendosi ad offenderci di essere italiani e cristiani, e invitandoci ad ascoltare un altro italiano… “tenore napoletano” disse, il quale avrebbe cantato una canzone natalizia nell’ufficio del teutonico comandante. Ma dopo circa mezz’ora di attesa dall’altoparlante sgorgò soltanto una flebile voce terrorizzata, quindi un gorgogliare di acqua ed una sonora risata. Sapemmo più tardi che il capitano aveva deciso di far fuori il povero napoletano perché “non era bravo come Caruso”. In una parola lo aveva affogato in una vasca d’acqua fredda che sgorgava dalla arrugginita cannella che gocciolava monotona sempre eguale a se stessa, per arrestarsi soltanto al mattino, ghiacciata, morta.
A mezzanotte pur se lontani migliaia di chilometri dai cari, molte baracche avevano una candela alla finestra, decorata dal ghiaccio. Intorno alla stufa a legna, al centro della camera, un gruppo di prigionieri, arrostivano le bucce di patate, recitando il rosario insieme al prete. E quando si intonò “Tu scendi dalle stelle”, il mulino a vento della memoria riaccese momenti cari del Natale, la letterina del babbo, la tavola imbandita, la messa di mezzanotte, la grotta del Presepio. E qualcuno pianse.
Ne avremmo rivissuti altri due di Natale, in quell’inferno dove l’essere umano era ignorato, vilipeso, sfregiato. Ricordo ossessionante di quella vita trascorsa tra reti spinate, cani ed aguzzini, simile ad un orologio senza lancette che segna il cammino della memoria diretta su un pensiero diverso
Le vicissitudini del cronista, che seguirono, furono pressoché fortunate. Salvato da una cara fanciulla, Maria Wagner, italo-tedesca di Frankfurt, vissuta a lungo a Milano; il cronista, dopo tediosa attesa, riuscì a tornare a Giulianova, a ridosso di botti trasportate da un traballante furgone in viaggio verso il sud. La sua abitazione non esisteva più, distrutta dalle bombe, il fratello minore, Benny, ferito, il padre Francesco colpito in fronte da una scheggia di bomba. Purtroppo, anche il governo italiano, molto occupato con la politica dei partiti, ignorò questi “figli della Patria”, concedendo ai derelitti, una misera pensione-elemosina, (come quella del cronista) che... vi prego non ridete!... ricevette 165 dollari al mese!.
Come dimenticare questi abbreviati aneddoti che, nonostante tutto, consentono di dire addio all’odio, benvenuto al futuro, e Buon Natale a tutti?
LINO MANOCCHIA

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